Alfonso Portago
di Luca Delli Carri e Paola Santoro

Estratto da "La Repubblica delle Donne" n.267 dell'11 Settembre 2001

Il suo nome per esteso era Don Alfonso Cabeza de Vaca y Leighton, Carvajal y Ayre, XVII marchese de Portago, XII conte de la Meiorada, Grande di Spagna, nipote di re Alfonso XIII di Borbone, pretendente di settimo grado alla corona spagnola. Detto Fon. Nato a Londra nel 1929, era cresciuto a Biarritz, dove d'estate si dava appuntamento la buona società di Parigi e Londra. Il padre era uno sportivo che viveva tra partite di tennis, pugilato, gare di yachting; dicevano fosse stato un agente segreto. Era morto a Madrid nel 1941 per una doccia fredda dopo una partita di polo. Da due anni era finita la guerra civile in Spagna. Hitler infuriava in Europa. E il marchese giocava a polo a Madrid. Da lui Alfonso aveva ereditato l'amore per lo sport e le sfide. A 16 anni disertò gli studi per la moto e il cavallo. Era riuscito a partecipare al Grand National, la più difficile corsa a ostacoli dei mondo. Non pago, creò la sua squadra di polo. Per puro divertimento era anche diventato nuotatore di classe internazionale nel mezzofondo, campione spagnolo di salto con l'asta, campione francese dilettanti di salto a ostacoli a cavallo. Scoprì il bob e si distinse, arrivando fino alle Olimpiadi. Aveva anche imparato a volare, ma subito smesso, perché le manovre spericolate gli avevano creato problemi con le autorità aeronautiche. A vent'anni si sposò. Carrol era bella, americana come sua madre, e gli darà due figli. Una volta al mese andavano a cena dai Windsor per un galà. Poi Fon scopri le corse. Aveva cominciato per caso, in Francia, nel 1953, con una gara su piccole macchine con motore da motocicletta. L'anno successivo comprò una Ferrari "tre litri" e con il suo amico Harry Schell andò a correre la Mille Chilometri di Buenos Aires. Arrivò terzo. Poi venne il Gran Premio d'Argentina, 5°; il Gran Premio di Cuba, 3°; la 12 Ore di Sebring, 7°. Quindi Ferrari lo chiamò a far parte della sua scuderia. Lo trattava con rispetto. Correva come solo chi è smisuratamente ricco può fare: l'emozione della gara era una delle poche cose che non poteva comprare. Gli ultimi anni furono frenetici, sempre in viaggio da Parigi a Buenos Aires, da New York a Milano, da Francoforte a Londra. La sua vita era entrare e uscire da lussuose stanze d'albergo. Ciò di cui aveva bisogno lo comprava sul posto. Gli piaceva avere un guardaroba ridotto perché rispondeva a un bisogno di essenzialità. Lo chiamavano viaggiatore senza valigia. Viveva come chi non possiede nulia. Noleggiava tutto. Più che partire gli piaceva arrivare. Con fare da attore, teneva la sigaretta costantemente accesa. E diceva "buonasera" anche alle nove di mattina. Le donne gli piacevano, e lui piaceva loro. Oltre a una moglie aveva un'amante, ufficiale, Linda Christian, poi c'erano gli amori dei momento. Con Linda erano come il giorno e la notte. Fon stava bene con lei, si divertiva, lei lo incuriosiva perché era brutale, selvaggia, avida, testarda. Rideva quando pensava a quanto lei fosse attaccata ai soldi. «E' il mio hobby più costoso», diceva agli amici. Poi venne la Mille Miglia. Fon non era preparato per quella corsa. «Marchese, ho una macchina per la Mille Miglia», gli disse Ferrari. «Commendatore, sarò felice di correre. Fare la Mille Miglia, comunque vada, sarà un grande onore per il mio paese, sarò il primo spagnolo a parteciparvi». Ma qualcuno disse che Ferrari lo aveva ricattato: «Senza Mille Miglia, niente Formula 1». 12 maggio 1957. E' giorno di gara. Fon sta guidando da ore, 10 e mezza per la precisione. Nei tempi è quarto, proprio dietro a Gendebien, l'avversario da battere. 210 orari, è vicino al paese di Goito. Sente una vibrazione sul volante. Mancano 50 chilometri all'arrivo. Va a 200, in quel tratto si può arrivare a 300, è tutto rettilineo. Il motore gira veloce, poi un rumore forte, uno scoppio. Un colpo al volante. E la macchina scarta a sinistra, impazzita. Dispaccio di agenzia, notte. Causa lo scoppio di un pneumatico, l'auto sbandava sul lato sinistro della strada cozzando contro un paracarro che fungeva da trampolino e la sollevava di un metro e mezzo. La vettura ripiombava a terra a una ventina di metri, e dopo avere spezzato un palo dei telegrafo finiva nel canale e falciava un gruppo di spettatori, uccidendone sei e ferendone gravemente altrettanti. Il serbatoio e la ruota di scorta, in seguito all'urto, volavano via e colpivano a morte altri tre spettatori. Dopo 20 metri la macchina precipitava nel canale. Alfonso Portago, 28 anni, e il suo compagno di gara, il giornalista americano Edmund Gurner Nelson, 40, rimanevano uccisi sul colpo. Il corpo dei pilota era stato espulso dalla macchina, troncato in due metà, raccolte una nel canale sinistro e una al centro della strada. Le gambe di Portago si trovavano a una distanza di 200 metri dalla macchina. In una tasca del corridore i carabinieri trovarono un portadocumenti con inciso il nome e, sul retro, un avvertimento: "Sono cattolico, in caso di incidente chiamate un prete".